Le perle, i porci e i “buoni samaritani della conoscenza”
Era da un po’ che questo articolo mi frullava per la testa, ma prima di lanciarmi nella sua stesura è d’obbligo precisare che l’uso della parola “porci” non è, in questo caso, a fini dispregiativi, e che nella preparazione di questo articolo nessun suino è stato maltrattato se non quello che ha fornito, bontà sua, delle deliziose salsicce per il sugo che ha condito i fusilli del pranzo di oggi e, di conseguenza, le energie per dedicarmi alla scrittura. Ma del resto, non sarebbe stato mai possibile ottenere quei salumi senza nuocere all’animale in questione, quindi fatevene una ragione e continuate a leggere.
Ma torniamo alle perle ai porci e alla parabola del buon samaritano, per introdurre con queste due note retoriche evangeliche un argomento che di sacro ha poco o niente, ovvero la progressiva svalutazione del sapere che Internet ha causato e continua a causare in nome di una libertà e gratuità di accesso alla conoscenza, promulgata soprattutto da movimenti come quello del copyleft e da ‘missionari della libera elargizione di contenuti di valore’ che operano quasi sempre nell’ambito dell’internet marketing e ambienti affini.
Con questo articolo non intendo criticare gli ideali e i valori di fondo che stanno dietro a queste filosofie e movimenti, quanto l’abuso che se ne fa e l’opportunismo che spesso sottintende allo sbandieramento di slogan e iniziative di araldi e ‘missionari’ che li sfruttano a loro vantaggio. Non lasciatevi intimorire dall’eventuale cripticità di quanto ho appena scritto, perché fra poco ogni cosa sarà chiarita.
Se il contenuto ha un valore, si paga
Viviamo nell’era delle piattaforme dello ‘user generated content’, ovvero il contenuto creato dagli utenti… e sfruttato dalle piattaforme che lo ospitano e ne fanno le basi per il loro profitto indiretto, aggiungerei. Quest’era è iniziata con le piattaforme di blogging, dove in cambio di un dominio di terzo livello (o di una sotto-directory) e di una manciata di megabyte su un server, tanta gente ha scritto e pubblicato di tutto e di più, fino a ingozzare il Web (e i motori di ricerca) di una tale quantità di contenuto da rendere quasi impossibile da controllare il marasma che ne è nato e che continua ad essere rigurgitato dai social network, dai risultati delle ricerche sui motori e in generale dai browser.
Quanto di questo contenuto abbia realmente un valore e un’utilità è sempre più difficile stabilirlo, ma è in nome di questa esondazione di dati, di questo fiume in piena di parole, immagini, suoni e video che certe persone si sentono autorizzate a decretare la morte dell’informazione in quanto “prodotto di valore da acquistare” e la nascita dell’informazione come “contenuto di valore da regalare”.
Eh già, perché prima che il Web fosse invaso dalla marea dei contenuti gratuiti, l’informazione aveva un valore: chi la creava veniva retribuito, spesso in modo adeguato, e chi ne fruiva lo faceva acquistando il ‘contenitore’ in cui tale informazione era stata organizzata e poi distribuita. Per chi ancora non l’avesse capito mi riferisco all’editoria periodica, le cosiddette riviste, che ha visto un progressivo processo di estinzione soprattutto nel settore informatico, prima vittima dell’espansione del Web, praticamente la madre uccisa dai suoi stessi figli, quei figli che aveva allevato e nutrito per decenni.
C’era una volta l’articolo (e la rivista in edicola)
Chi non è nato già con un tablet o uno smartphone in mano probabilmente ricorda il tempo, ormai lontanissimo, in cui si scrutava la vetrina o lo scaffale dell’edicola ‘scansionando’ le copertine delle riviste cercando di inviduare i contenuti ‘di valore’, ovvero quei contenuti che potevano avere un’utilità più o meno immediata e spingere all’acquisto del periodico in questione. Diciamo che si trattava di una forma piuttosto primitiva e arcaica di ricerca, simile a quella che oggi si fa con Google o altri motori, oppure un equivalente del modo in cui oggi ‘sfogliamo’ il flusso incessante di condivisioni sui social media o l’elenco dei contenuti proposti quotidianamente dai nostri siti preferiti, di cui fanno senz’altro parte le versioni digitali di quotidiani e riviste sopravvissute alla mattanza ciberspaziale, o almeno le loro controparti ‘gratuite’ per il Web.
Qualche editore ha tentato, o sta ancora tentando, di mantenere intatto il valore dell’informazione specializzata cercando di convincere i lettori ad abbonarsi a versioni digitali delle sue pubblicazioni, ma boccheggia e annega travolto dalla pirateria digitale e dall’assuefazione alla gratuità dei contenuti che ormai dilaga inarrestabile fra il pubblico. Sarà anche vero che la maggior parte degli editori non ha saputo ridimensionarsi, offrendo a un prezzo più onesto un prodotto che, non dovendo più farsi carico dei costi di stampa e distribuzione, poteva appunto essere adeguato nel costo e mantenere la sua appetibilità, ma osservando quanto sta succedendo nell’universo digitale dalla Rete viene da chiedersi quanto ciò avrebbe potuto realmente contribuire a evitare il fallimento già annunciato.
L’informatica (e il digitale) sono sinonimi di “scarso valore”?
Fermatevi un attimo a riflettere sull’impatto negativo che la sempre maggiore disponibilità di informazione a costo zero o “un tanto al chilo” ha avuto sui servizi e prodotti informatici e sul lavoro (inteso come somma di tempo+esperienza) che sta dietro alla loro creazione.
Vogliamo cominciare da come si è passati dagli “informatici in camice bianco” o in giacca e cravatta che facevano pagare a peso d’oro hardware, software e consulenza al cugino, al nipote o all’amico che “mi vieni a sistemare il computer (GRATIS) che non mi si avvia più?”. Poi magari potremo passare alla transizione dal “webmaster sacerdotale” che ti fa pagare un sito quanto il mutuo di una casa al servizio che “fatti il sito GRATIS cliccando come una scimmia ammestrata”. E in mezzo, magari, ci mettiamo anche il passaggio dal corso o dal libro che compri e utilizzi fino a consumarne il supporto perché l’hai pagato, al petabyte di cartelle contenenti trilioni di ebook, videocorsi e riviste in PDF che hai scaricato a scrocco e semplicemente collezioni perché “prima o poi potrebbero servire”.
La facile riproducibilità prima, e l’ancora più facile condivisione dopo, hanno praticamente decimato miliardi di prodotti creati con il tempo e l’esperienza di persone che hanno investito parte della loro esistenza per dar loro vita, e la strage continua inarrestabile. Non sto parlando semplicemente della pirateria, che esisteva già molto tempo prima dei computer e di Internet (avete già dimenticato le fotocopie e il riversamento selvaggio di dischi, musicassette e videocassette?). Chi colleziona copie (illegali) di ebook ne leggerà meno di chi si diverte a riempire gli scaffali della sua biblioteca di libri cartacei, e se si esclude la musica, che può essere ascoltata mentre si fa qualcos’altro, qualsiasi altro contenuto digitale ha bisogno di tempo e di attenzione per essere fruito, e a meno di non vivere di rendita (cosa che andrebbe in contrasto con la tendeza a ‘rubare’ anziché acquistare) sarà difficile che si abbia a disposizione le migliaia di ore necessarie per godersi collezioni sconfinate di film e libri scaricati dalla Rete, soprattutto se gran parte di quel tempo è assorbito, neanche a farlo apposta, da altri stimoli digitali provenienti dal gioco, dai social network e da siti di vario genere.
Ma lasciamo da parte la pirateria, su cui si è già detto troppo e spesso a sproposito, e torniamo al deprezzamento dell’informazione e delle competenze. Prima che il Web diventasse sinonimo di ‘gratis a ogni costo’, per una rivista si spendevano diverse migliaia di lire, l’equivalente di diversi euro di oggi, anche se la rivista conteneva soltanto un articolo che poteva interessarci (e spesso si finiva per scoprire che, in fondo, l’articolo non era poi granché, e ci si consolava con il resto dei contenuti). Prima che il Web si trasformasse in una corsa a chi regala il contenuto migliore, per imparare a fare qualcosa si pagava il tempo e l’esperienza di chi insegnava a farlo (attraverso lezioni dal vivo, dispense, libri, articoli o consulenze). Perché l’informazione aveva un valore, quel valore che gli era stato appunto assegnato dal tempo e dall’impegno di chi aveva ‘lavorato’ o quantomeno investito una parte della sua vita nel crearla. Perché la vita, sapete, ha un valore, e l’esperienza ne aggiunge altro. E il lavoro è quasi sempre il prodotto della somma di tempo (ovvero vita) ed esperienza, e di conseguenza è giusto attribuirgli un valore adeguato.
Certo, al mondo c’è chi ha la vocazione di lavorare gratis, di donare il suo tempo e le sue energie (e magari ogni altra risorsa a sua disposizione) al prossimo, in un lodevole ed encomiabile flusso di generosità e abnegazione che proiettano sulla sua figura un alone di santità e lo avvolgono in un profumo di incenso. Ne conoscerete anche voi, di persone così. Dite la verità, quante ne avete incontrato nella vostra vita?
Personalmente ho coltivato la generosità per gran parte della mia passata esistenza, e non mi pento di averlo fatto se è servito ad aiutare qualcuno che non poteva permettersi di acquistare ciò che io gli offrivo gratuitamente, che si trattasse di prodotti o servizi. A parte ciò, preferivo dare il giusto prezzo ad ogni altra cosa che riguardasse il mio lavoro, le mie competenze e l’esperienza che avevo accumulato e continuavo ad accumulare sudando e bestemmiando con il mondo dell’informatica e le sue mille variabili e imprevisti (chi opera in questo settore sa bene di cosa parlo, ma anche i normali “utenti” avranno capito a cosa mi riferisco, per quanto toccati solo in parte dal problema).
Del resto, devo ancora trovare un pizzaiolo che faccia pizze gratis, un parrucchiere che tagli gratis i capelli o un idraulico che non si faccia pagare anche solo per estrarre un calzino dal filtro della lavatrice. Tutta brava gente che ha “imparato il mestiere” con il tempo e l’impegno, dopotutto. Già, a differenza degli informatici, di quegli inutili “nerd” brufolosi dai capelli unti (se ancora glie ne sono rimasti) che hanno trascorso anni della loro vita a cazzeggiare e divertirsi con hardware e software e ora pretendono che li si paghi per fare una cosa che magari fanno pure con un certo piacere e impiegando, dopotutto, lo stesso tempo che un pizzaiolo impiega per fare una pizza (impasto compreso), o un parrucchiere a tagliare i capelli o un idraulico a capire che il calzino è finito nel filtro della lavatrice ed estrarlo senza fare danni. Che ci vuole, dopotutto?
Anche l’informazione è un prodotto (o un servizio), quindi…
Avete presente un ufficio informazioni, per esempio quello di una Pro Loco? Entrate, interrogate il personale addetto a fornire le informazioni in questione, e andate via senza pagare una lira. Ma qualcuno paga la persona (o le persone) da cui quelle informazioni vengono fornite, sapete? E qualcuno paga un affitto per quei locali, e ha pagato i mobili con cui sono stati arredati, e paga le bollette delle utenze. Sapete come paga tutto ciò? Con i vostri soldi, quelli che pagate di tasse (o di chi le paga mentre vi mantiene, se non avete ancora un lavoro e vivete, per esempio, in famiglia).
Allora perché pretendete di ottenere gratis qualcosa solo perché è digitale e viene da Internet? Ah, sì, certo, perché ormai funziona così, perché così ci hanno ‘abituati’. Click e grazie, come dice un mio caro amico. Dopotutto state leggendo (se siete arrivati fino a qui non mi avete già mandato al diavolo paragrafi fa) anche questo articolo in modo del tutto gratuito, non avete mica dovuto comprare un giornale o pagare un canone di abbonamento per usufruire di questo contenuto, giusto?
Cosa dite? Pagate già la connessione a Internet e avete pagato il dispositivo da cui vi collegate per leggerlo? Sì, certo, così come avete pagato l’auto con cui viaggiate e il carburante che ci mettete dentro, ma le strade su cui la guidate le avete pagate, o le ha pagate qualcuno per voi, sapete. Avete fatto caso che al mondo l’unica cosa gratuita è l’aria che respirate e i panorami che guardate? Sapete perché? Perché nessuno ha dovuto fabbricare quell’aria o quei panorami, era già tutto lì, bello e pronto. Tutto il resto, ovvero tutto ciò che richiede del lavoro (o dei costi) per essere prodotto, beh, mi spiace ma dovrete pagarlo, o almeno abituarvi a farlo, direttamente o indirettamente.
Sì, lo so, il Web ha promosso in maniera sempre più massiccia la gratuità dei contenuti, gli stessi giornali rendono ormai disponibili gratuitamente online le notizie ogni giorno e ad ogni ora del giorno. Come dite? Peccato che mentre le leggete vi sparino un video che vi copre metà dello schermo e magari si avvia da solo ed è pure difficile chiuderlo. Eh, certo che se togliessero quel video si potrebbe leggere tutto più comodamente, soprattutto sullo smartphone. Beh, quel video (o il banner, o lo spot, o la finestra popup che vi si mette di mezzo mentre cercate di leggere o guardare ciò che vi interessa) è ormai l’unica cosa che produce un reddito al fornitore del contenuto, e probabilmente quel reddito è tanto inferiore agli investimenti fatti per produrre il contenuto o solo mantenere la piattaforma (se il contenuto lo producono altri utenti come voi) che prima o poi la pacchia finirà, ve lo posso assicurare.
P.S. La foto ritrae l’immagine di un “precario” che offre ‘informazioni gratis’ davanti al tribunale a Napoli. Ringrazio indirettamente Francesco Imparato, ritratto nella foto, e gli faccio personalmente un sincero in bocca al lupo per la sua ricerca di un lavoro e la sua vita in generale.
Un valore destinato all’oblio
Quando l’informazione viaggiava prevalentemente sulla carta (patinata o meno) dei periodici, dei libri e delle dispense, l’arco di vita cui era destinata era abbastanza lungo, una volta che il supporto era stato acquistato da chi ne avrebbe usufruito. Il resto, ovvero l’invenduto, aveva invece una destinazione più terribile e già programmata: il macero. Se pensate che alcune di quelle riviste e molti di quei libri sono ancora là, dentro qualche scaffale, e c’è chi si prende la briga di consultare quelle pagine dopo decenni (e magari scansionarle e rimetterle a disposizione online per gli appassionati), c’è davvero di che meravigliarsi. Con l’evolversi della tecnologia e l’avvento dell’informatica e di Internet, una buona fetta di quelle informazioni cominciò a soffrire sempre più rapidamente di obsolescenza.
Tonnellate di carta stampata che nel giro di anni, prima, e di mesi, in seguito, il cui contenuto perdeva il suo valore e diventava praticamente inutile con l’evolversi degli argomenti trattati (hardware, software, linguaggi di sviluppo). Tristemente, anche coloro che avevano scritto di quegli argomenti e ne avevano investito tempo ed energie per acquisirne la competenza vedevano svanire il risultato degli sforzi e dell’impegno dedicati a costruire tutto ciò, e si ritrovavano a ricominciare spesso daccapo. Questo processo inarrestabile e inevitabile è diventato sempre più veloce, sottomesso a logiche di mercato secondo cui ogni cosa deve essere sostituita da un’altra più potente, più compatta, più bella e più ‘trendy’ perché bisogna dare in pasto qualcosa di nuovo da comprare alle persone, altrimenti il mercato finisce per fermarsi e ristagnare.
Ho avuto il ‘piacere’ di assistere a gran parte di questo processo di accelerazione dell’obsolescenza perché la mia carriera professionale è iniziata a cavallo degli Anni Ottanta, ma c’è chi ha cominciato un decennio prima e ha visto anche di peggio. Ma le generazioni successive alle nostre, e soprattutto i cosiddetti ‘millennials’, sono così assuefatte al processo di obsolescenza da viverlo quotidianamente senza neanche farci più caso. Soffocati da miliardi di stimoli audiovisivi, consumano dati come il fuoco consuma l’ossigeno, bruciandoli letteralmente. Provano a creare contenuto, immettendolo nell’immenso calderone del Web e dei social network, e osservano impassibili alla sua veloce fiammata e alla sua rapida estinzione quando il magma dell’eruzione di contenuti prodotti da altri lo travolge, annientandolo.
Qualcuno crea un contenuto, usando parole e immagini, e lo pubblica. Qualcun altro lo condivide, altri lo “apprezzano” con un click dopo avergli dato una rapida occhiata, lasciandolo andare verso l’oblio per fare spazio ad altri contenuti, in una successione inarrestabile di dati spesso creati solo per solleticare aree ristrette del cervello, mentre tutte le altre si atrofizzano perché sempre meno utilizzate. E così via, in un mondo sempre più affollato di dati al punto che finisce per somigliare a una discarica, a un fiume in piena che trascina con sé di tutto, lasciando appena il tempo di vederlo passare.
In tutto ciò c’è ancora chi è convinto che creare e pubblicare un contenuto possa “valere la pena”, o meglio, che i suoi sforzi per produrlo e metterlo in circolazione siano in qualche modo ripagati se non da un riscontro oggettivo ed economico, almeno dall’apprezzamento di un pubblico. Ma questo “pubblico” è sempre più distratto, sempre più “drogato” di informazione e frettoloso, soffocato da una bulimia fatta di stimoli multimediali, che ingurgita e rigurgita senza più assaporare e digerire.
Ormai sono sempre di meno coloro che commentano gli articoli sui blog, coloro che condividono un contenuto sui social o addirittura cliccano semplicemente per esprimere il loro apprezzamento, anche se ne hanno (sempre più rapidamente e superficialmente) fruito.
Per costringerli a soffermarsi e constatare il valore di qualcosa bisogna costringerli a pagare, anche un solo euro, come scrive il simpaticissimo Francesco (alias Checco Star) nel suo articolo dedicato al valore del lavoro e della competenza e al danno prodotto dal gratis (beccati ‘sto link, Francè, e sappi che c’è chi gusta, apprezza e dà valore al tuo contenuto, fosse anche solo per solidarietà).
Viziati dal gratis
E intanto, viziato dal gratis, c’è chi si permette di scrivere un commento negativo a un ebook venduto a 99 centesimi di euro perché contiene “poche informazioni che del resto si trovano facilmente su Internet”, senza considerare che chi ha messo insieme quelle informazioni gli ha appunto fatto risparmiare il tempo e la fatica di cercarle e selezionarle e che, dopotutto, i 35 centesimi di euro che gli rimangono in tasca per la vendita dell’ebook sono ben poca cosa, soprattutto se non è un best-seller. Brutti pezzenti (lo dico a nome di chi pubblica qualcosa di decente e tutto sommato utile, e lo svende anche a meno di un euro), forse ritenete di saper fare di meglio e che quanto avete letto non valga neanche meno di un caffè? Pensate che il vostro disprezzo per il lavoro altrui vi faccia apparire più intelligenti, o magari vi siete presi la briga di criticare in quel modo un contenuto solo perché ci avete speso quello che in genere spendete per fumarvi una sigaretta o bere un bicchiere di acqua minerale al bar? Sappiate che la vera figura (da barboni) la fate voi che lasciate certi commenti, soprattutto se lo fate con tono sprezzante e immeritatamente, a fronte di una manciata di centesimi o di qualche euro. Se, poi, lo avete fatto per motivi personali (possono essercene tanti) e sperate di danneggiare l’autore, assicuratevi che il vostro giudizio non sia parte di un’esigua minoranza, perché altrimenti finirà solo per rispecchiare tutto il suo putrido marciume.
Che dite, sono stato troppo duro verso chi si prende la briga di sputare sentenze e lamentarsi per aver speso una miseria in qualcosa che poteva cercarsi da solo su Internet? Dite che ho offeso chi disprezza il lavoro altrui anche se un valore ce l’ha (quindi escludo l’immondizia che inevitabilmente popola il mondo dei contenuti digitali, esiste anche quella) e viene venduto a un prezzo tutto sommato onesto? Beh, certo, dopotutto quei soldi spesi li ha a suo modo guadagnati col sudore della fronte, e avrebbe potuto investirli in qualcosa di più meritevole, come sicuramente fa ogni giorno della sua interessante e preziosa vita. Peccato che la manciata di spiccioli spesi per leggere “qualcosa si trova semplicemente cercando su Internet” forse vale molto meno del tempo impiegato a cercare e selezionare quelle informazioni, ma probabilmente queste persone giudicano il loro tempo, e la loro vita, tanto inutili da non giustificarne il risparmio in cambio di un controvalore economico, seppure minimo.
Gratis un corno!
In ogni caso, siete davvero sicuri che i contenuti di cui state usufruendo siano stati pubblicati e condivisi GRATIS? La parola gratis (che non a caso genera quasi un miliardo di risultati su Google, come si vede dall’immagine) indica qualcosa che viene offerto “senza aspettarsi alcuna contropartita, monetaria o di altro genere”. Ripeto la domanda, a questo punto: siete davvero certi che i contenuti messi a vostra disposizione siano stati pubblicati GRATIS? Non sto parlando, naturalmente, dei rantoli di qualche adolescente che sfoga le sue frustrazioni giovanili sui blog o sui social network condividendo selfie ‘emo’ o diari che rasentano l’istigazione al suicidio, e nemmeno gli sfoghi barbarici di qualche ultrà o altro genere di estremista politico, religioso o ideologico che riversa il suo odio e livore in forma digitale sul Web. Mi riferisco ad articoli ben scritti, ricchi di informazioni utili e interessanti, degni di essere pubblicati (quando il contenuto aveva un valore) e retribuiti su una rivista o su un libro. Chi pubblica questo genere di contenuti non lo fa GRATIS, in quanto si aspetta una contropartita di un qualche genere, che si tratti di un maggiore accesso al suo sito per poterlo rendere più appetibile agli inserzionisti pubblicitari, oppure di un click su qualche link affiliato da cui ricavare pochi centesimi o qualche euro, del rafforzamento della sua immagine e del suo brand personale che possa sostenere la vendita dei suoi prodotti o servizi, o semplicemente della masturbazione mentale che si ottiene titillando il proprio ego quando si riceve una forma qualsiasi di feedback da parte del pubblico, foss’anche un commento di critica su cui intavolare una discussione, oppure quando le statistiche di traffico denotano una qualche forma di ‘attenzione’ da parte del pubblico.
Eppure c’è ancora gente che promuove la “distribuzione gratuita di contenuti di valore” e non ha il coraggio di chiamarla col suo vero nome, magari auto-promozione oppure tentativo di monetizzazione dei contenuti. Guarda caso, le stesse persone che sostengono questo spirito missionario fanno quasi sempre parte del circuito dei cosiddetti ‘markettari’, pronti a venderti qualcosa con la sinistra mentre con la destra fanno finta di regalarti qualcos’altro.
Quanto vale la vostra vita?
Per quanto mi riguarda, ho da qualche tempo passato il mezzo secolo su questo pianeta, di conseguenza se guardo avanti non vedo più i decenni che vedevo decenni fa, e mi ritrovo spesso a valutare molto più seriamente di prima il modo in cui impiego questo tempo che ancora mi resta da vivere. Sicuramente in parte lo regalerò, se mi andrà di farlo. Ma altrettanto sicuramente pretenderò che lo si valuti per ciò che realmente vale, soprattutto se al suo interno metterò altro valore fatto di esperienza, competenza e professionalità. Chi si aspetta di ottenere gratis quello che a me è costato tempo e fatica, a meno che non si tratti di qualcuno che non può permetterselo in quel momento, credo aspetterà invano e a lungo. Per tutto il resto c’è Mastercard.
Ah, e se qualcuno si sente offeso per quanto ha letto, beh, fatti suoi, mi escluda pure dai suoi contatti e mi ‘cancelli’ dalle sue ‘amicizie’, del resto di amici sinceri e di clienti che apprezzano il valore di ciò che posso offrire ne ho così tanti che faccio fatica a contarli, e se mi viene voglia di regalare qualcosa posso scegliere come, quando e a chi regalarlo, il mondo è davvero vasto e di persone meritevoli ce ne sono tante. Prima di offendervi, però, mettetevi una mano sulla coscienza e provate a capire se c’è davvero qualcosa di sbagliato in quello che ho detto finora. Se la vostra conclusione è che, al contrario, non c’è niente di giusto, forse avete sbagliato a leggere fino alla fine di questo articolo.