Quando il postino, in un caldo pomeriggio di giugno, suona alla mia porta per consegnarmi una copia di “Vite Infinte. Memorie ad accesso casuale di un videogamer” di Diego Kaneda Pierini so già che ogni altro impegno dovrà aspettare (ebbene sì, spesso lavoro anche nei weekend, essendo un freelance), travolto da un compito tutt’altro che gravoso…
Così come so per certo che devo prepararmi a un viaggio nel tempo, un tempo di cui sono stato in parte protagonista e dal quale sono uscito, come si usa fare soprattutto nel mondo dello sport, all’apice della popolarità lasciando il timone a chi, da un punto di vista generazionale, era in quel momento in grado di salpare per nuove (per lui) rotte ancora tutte da scoprire e costruirsi un futuro professionale dopo aver fatto parte della ‘ciurma’ che avevo portato a bordo di un veliero che ancora oggi, a distanza di decenni, solca ancora i mari dell’editoria videoludica. Del resto anche per me, allora, cominciavano nuovi percorsi che in ogni caso mi avrebbero impedito, come sempre, di ‘annoiarmi’ per un solo minuto delle mie giornate, mentre si chiudeva quella parentesi, pur indimenticabile e intensamente vissuta, legata al mondo dei videogiochi, per spaziare verso orizzonti ancora più vasti legati al mondo della tecnologia, dell’informatica e di Internet.
Random Access Memories
Ma torniamo a “Vite Infinite”, che nelle sue quasi duecento pagine ha (ri)proiettato, in meno di 24 ore, immagini e ricordi sullo schermo della mia memoria, in un interminabile medley digitale che ha ripercorso tutte le tappe e sentieri ‘battuti’ da chi oggi può affermare di essere stato (e probabilmente di essere ancora) un ‘videogamer’.
Si tratta, come giustamente ha voluto sottolineare Diego, che ho avuto il piacere di conoscere qualche anno fa di persona quando abitavo e lavoravo a Firenze, di una serie di ‘memorie ad accesso casuale’, ovvero ripescate dai ricordi videoludici (e informatici) che hanno costellato almeno tre decenni della sua vita. Un amarcord digitale in cui mi sono (in buona parte) ritrovato, scandito da una serie di capitoli che il buon Diego ha sapientemente titolato facendo uso di ‘citazioni’ sicuramente familiari non soltanto ai nerd di vecchia data, ma anche a chi ha appunto vissuto soprattutto il ventennio che precede storicamente il nuovo millennio.
Diego ci tiene a sottolineare, sin dalle prime pagine, che le eventuali atmosfere ‘nostalgiche’ in cui inevitabilmente ci immergiamo, essendone intrisa l’opera, non devono far pensare a una propensione per il passato tale da escludere le mirabolanti evoluzioni del presente videoludico, e del resto i lettori non giovanissimi che hanno vissuto quegli anni e decenni sanno bene quale fascino eserciti ancora oggi il cosiddetto vintage, che si tratti di una delle prime console per videogiochi, di un orologio Casio o di una Polaroid, un fascino che tra l’altro va ben oltre la tecnologia quando si parla, appunto, di vintage.
“Per questo preferirò sempre lo sgraziato e po’ inquietante chassis beige di un IBM 5150, alla finta radica del glorioso Atari 2600 […] La qual cosa non implica che non apprezzi il nuovo: solo, non vi percepisco la stessa aura mistica, quasi esoterica, che ritrovo in quelle tecnologie.”
Ma il compito che Diego K. Pierini si prefigge in “Vite Infinite” va ben oltre la semplice rievocazione storica o autobiografica, che in ogni caso è uno dei due aspetti ‘ricostruttivi’ svolti da questo diario multiforme, chiassoso e colorato ma anche (crono)logicamente strutturato, in cui sicuramente si ritroveranno i lettori che (non a caso) scelgono di leggere questo libro. L’altro compito, ben più importante e tutt’altro che autoreferenziale o nostalgico, è quello di delineare i tratti caratteristici di una generazione, di una tribù, che l’autore definisce giustamente una classe culturale, e forse genetica.
Quello che Diego (continuerò da ora in poi a riferirmi a lui col nome, in quanto mi viene più naturale e spontaneo) descrive in maniera tutt’altro che ‘casuale’ è il passaggio evolutivo da una generazione tutto sommato ‘analogica’ ed ‘elettrica’, a nuove generazioni ‘digitali’ ed ‘elettroniche’, dove oggetti come il televisore e il mangianastri (con le sue cassette) assurgono a un ruolo ben più passivo e, appunto, analogico e diventano parte di un universo che in quegli anni comincerà a espandersi ed evolversi sempre più freneticamente, dando vita all’interazione fra i contenuti e i loro fruitori in un mondo completamente virtuale e non più ‘solido’ come quello che aveva caratterizzato l’infanzia delle generazioni precedenti.
Quando tutto era (ancora) creatività e fantasia
Inevitabile, in queste pagine, la conferma di quell’impressione che ha caratterizzato chi, cresciuto in quei decenni, e ha visto la differenza fra quanto scaturiva da una scarsità di mezzi e risorse e quanto, invece, viene prodotto da una sovrabbondanza degli stessi. Anche se si tratta di un concetto espresso in maniera più chiara e completa nell’ultimo parte del libro, essendo quella più allineata coi tempi attuali, viene accennato e sottolineato da subito.
“L’avvicinamento all’esperienza cinematografica ha prodotto uno sbilanciamento enorme degli sforzi verso impatto visuale e (soprattutto) spessore della sceneggiatura.”
Soltanto chi è assuefatto alle sofisticate tecnologie grafiche attuali, e non ha attraversato l’epoca in cui la fantasia del giocatore aveva un ruolo più importante e determinante nel gioco stesso, potrà ostinarsi a negare che in molti casi si ritrova un’originalità di soggetto e di ‘storia’ maggiore negli attuali videogiochi ‘indie’ che non in molti blockbuster milionari, la stessa originalità che, nei decenni precedenti, scaturiva dallo sforzo che moltissimi sviluppatori compivano pur di spremere fino all’ultimo bit ciò che l’hardware gli metteva a disposizione.
Più ‘sociale’ dei ‘social’
Un altro aspetto che Diego riesce a cogliere e riproporre nel suo excursus storico-(auto)biografico è quello dei rapporti sociali che si intessevano in quegli anni, fatti dei famigerati scambi di software ‘piratato’ (in un’epoca in cui le edicole brulicavano di giochi che in ogni caso erano tutt’altro che ‘legali’).
La rievocazione si fa subito viva, anzi ‘vivida’, quando, nel terzo capitolo, descrive l’incursione in soffitta a casa di suo cugino, durante una delle tante riunioni familiari ‘festive’, e l’esplorazione frenetica dei dei nastri contenuti in una scatola di scarpe alla ricerca di qualche gioco da caricare sul Commodore 64, insieme al collaudo di una serie di joystick per individuare quello più adatto e, infine, l’attesa del caricamento che i possessori del ‘biscottone’ di casa Commodore e del suo immancabile Datassette ben conoscono.
“Inizia un’attesa snervante, lunghissima: seducente. Altro che rituali d’accoppiamento: quello sì che voleva dire saper aspettare.”
Ancora più affascinante è l’analogia con cui Diego descrive il suo senso ‘sociale-spaziale’ associato alla presenza, nel circondario della sua quotidianità, di persone (coetanei e non) presso cui sapeva di poter trovare hardware e software videoludico che non aveva a disposizione di suo, descrivendosi come un ‘bambino avido di pixel’ che nella sua testa aveva ‘steso un astratto tabellone da Risiko’.
In queste pagine si evidenzia, infatti, la difficoltà che un ragazzino di oggi, avvezzo alla socialità ‘iper-connessa’ della Rete e dei social, può avere già soltanto a immaginare cosa poteva voler dire, allora, costruire ‘fisicamente’ la rete di contatti e amicizie necessaria a individuare, e fruire, quelle risorse videoludiche tanto differenti fra loro, tipiche di un’epoca storica in cui l’hardware (e il firmware) godeva di ben poca standardizzazione. O le difficoltà nell’ideare le strategie necessarie ai ‘baratti’ in cui si sapeva di non poter offrire qualcosa di realmente valido e all’altezza di quanto si voleva ottenere, in termini di software videoludico, ma si faceva di tutto per condire la propria offerta con ingredienti appetibili alla controparte.
“Andava di moda il baratto, al tempo: giovani pionieri dello sharing intrisi di capitalismo midollare proprio del decennio che stava terminando.”
Sì, perché ‘scambiare’ un videogioco, allora, presupponeva necessariamente uno scambio fisico, fatto di cassette o, al massimo, di floppy disk, quasi sempre identificati da semplici etichette adesive con note scritte a mano, ma il cui contenuto poteva rivelarsi come esperienza determinante e in grado di lasciare un segno nell’immaginario e nella memoria dei giovani videogiocatori.
‘Smanettoni’ di conseguenza
Un altro aspetto descritto con la tipica ironia e verve in “Vite Infinite” è quello legato alle sfide che spesso si presentavano proprio nel tentativo di fruire dei giochi presenti sui floppy, in particolare nel mondo dei PC.
Le acrobazie che ci si ritrovava a compiere nel famigerato ‘disk swapping’ quando un gioco era distribuito su più supporti, o quelle (ancora più temibili) che un gioco non originale richiedeva quando per motivi di integrità dei dati memorizzati o difetti del supporto ci si ritrovava di fronte a messaggi d’errore o addirittura allo schermo nero.
“Innanzitutto studiare al millisecondo i movimenti della testina del drive, per capire quando esattamente giungeva a un punto morto e girava su se stessa per una manciata di clicli (lo si faceva auscultandole lo sfrigolio: il mio orecchio si affinò tanto che avrei potuto tranquillamente conversare di Hegel con un modem).”
Nello scorrere queste memorie non ho potuto fare meno di pensare a come, abituato ai suoi emessi dai nastri dello ZX Spectrum (a differenza del Datassette utilizzato per il C64 si leggevano con comuni mangianastri), ero a un certo punto in grado di capire se i dati caricati erano programmi, schermate o altro.
Anche chi si ‘limitava’ a restare nell’ambito del semplice videogioco era costretto, allora, a familiarizzare con hardware, software e sistemi operativi per gestire al meglio l’utilizzo dei programmi, oltre che districarsi fra i diversi standard e la gestione di file e supporti. Per molti, quella sfida continua si trasformava in una sempre maggiore familiarità con l’informatica, al punto da essere poi interpellati per risolvere ogni genere di problema da parte di chi, invece, a quelle acrobazie digitali non era affatto abituato.
La ‘stampa di settore’
Non avrei potuto sorvolare o, peggio ancora, non apprezzare, i riferimenti che nel sesto capitolo rievocano i fasti dei periodici dedicati al mondo videoludico, essendone stato io stesso parte prima di dedicarmi al più ampio universo informatico e della Rete.
Anche se pienamente consapevole del ruolo che in quegli anni svolgemmo con il nostro lavoro di divulgazione e informazione, ho comunque apprezzato il modo in cui vengono sottolineate le qualità di quella forma di ‘giornalismo’ forse mai considerata alla stregua di quella degli organi di stampa ‘tradizionali’.
Eppure, complice il tema trattato e l’entusiasmo del relativo pubblico di giovanissimi lettori, abbiamo probabilmente contribuito più di altri ‘colleghi’ a lasciare un segno indelebile e di valore in quella generazione.
“Il risultato era che le mie conoscenze linguistiche crescevano, così come la capacità di orientamento concettuale, finendo oltretutto per evolversi all’unisono con una realtà che vedevo crescere di pari passo, senza mai avere l’impressione di trovarmi di fronte a un processo di educazione univoco, a un flusso discendente di informazioni, con tutto il vigore formativo che una dinamica del genere implica.”
Ad essere sincero ho avuto modo di riscontrare questo ‘effetto educativo’ anche fra chi ha giocato le mie avventure prodotte prima del lavoro redazionale alle riviste di videogiochi, cosa che invece non ho riscontrato nel successivo lavoro di divulgazione tecnica e informatica, dove i temi trattati e il pubblico lasciavano poco spazio a un linguaggio ‘vivo’ e creativo come quello che si utilizzava quasi sempre nel recensire i videogiochi e trattare di quel mondo così dinamico, variegato e multiforme. L’apprezzamento, e in un certo senso l’affetto, che si percepisce nel testo a proposito di quelle riviste trova, tra l’altro, conferma nella menzione che viene fatta, a fine libro, dello splendido progetto di ‘recupero’ attuato con Retroedicola Videoludica, sicuramente lo sforzo più lodevole ed energico di preservazione della vecchia stampa periodica di settore di quei decenni.
Dalle sale giochi alle console, passando per gli home computer
Nelle pagine di “Vite Infinite” si passa in maniera fluida e naturale dalla rievocazione delle sale giochi a quella delle diverse console che si sono succedute nel tempo, con divertentissimi riferimenti sia all’ambiente delle prime con il tipico pubblico di frequentatori assidui, sia alle talvolta infelici scelte di marketing o progettazione delle seconde, comprese quelle meno conosciute.
“Una versione custom del MegaPC si poteva ottenere attaccando con del nastro adesivo un Megadrive e un 286, a un prezzo comunque inferiore a quello proposto da Amstrad.”
In questo percorso evolutivo ci si imbatte, attraverso piacevoli excursus, in fenomeni come quello dell’ascesa di ID Software con Wolfenstein 3D e ancor di più il mitico Doom, col relativo impatto del gioco in soggettiva come nuova prospettiva di esperienza videoludica, oppure l’ascesa dei beat’em up (i nostri ‘picchiaduro’) con titoli storici e indimenticabili come Street Fighter II o Mortal Kombat, entrambi dettagliatamente inquadrati per le innovazioni portate nell’ambito specifico.
Violenza e pregiudizi
E a proposito dei giochi cosiddetti ‘violenti’ e delle loro implicazioni etiche o sociali, ho ovviamente apprezzato le considerazioni che nel libro vengono fatte a proposito della demonizzazione, quasi sempre operata a sproposito, cui viene sottoposto questo medium soprattutto in corrispondenza di fatti di cronaca o quando un titolo considerato particolarmente ‘diseducativo’ sale agli onori del mercato e all’attenzione dei media ‘mainstream’.
“Quante volte è realmente possibile stabilire sia stato uno sprone, se non addirittura lo sprone, a commettere un qualsiasi atto deplorevole, e non sia invece un dato incidentale?”
Del resto Diego ci tiene a precisare che “Vite Infinite” non è un saggio accademico, non ha pretese di rilevanza storica, figuriamoci etica, ma nello stesso tempo fa riflettere, attraverso una serie di importanti considerazioni, sulla facile tendenza ad attribuire al videogioco quelle responsabilità che, molto più di frequente e con maggior cognizione di causa, si potrebbero ascrivere ad altre forme di intrattenimento o alla scarsa tutela e supervisione genitoriale degli adulti riguardo a ciò che va ad alimentare la fantasia e le emozioni dei giovanissimi.
Il passato rievocato, il presente non ancora ‘futuro’
L’ultima parte del libro, dopo un rapido (ma dettagliato) excursus dedicato al rapporto fra videogiochi e cinema (in entrambi i sensi), all’emulazione software e hardware, al retro-collezionismo e ai cambiamenti apportati dalle tecnologie (hadware e software) dell’ultimo decennio, si sofferma sulle prospettive potenziali che un’evoluzione di quanto già si è ottenuto ‘spremendo’ le capacità di calcolo attuali potrebbe produrre.
“[…] il videogame di oggi, ben oltre la sua ovvia forza di intrattenimento e il suo inarrestabile successo economico, è principalmente questo: prospettiva.”
Ed è così che si conclude, in un certo senso, questo viaggio alla scoperta di una memoria personale ma anche ‘collettiva’, che personalmente ho letto con estremo piacere apprezzando soprattutto quella vivacità e quello spirito che, in un certo senso, a rievocato con ancora più energia quel periodo indimenticabile della ‘nostra’ vita.
Non posso, quindi, che consigliare la lettura di “Vite Infinite” a chiunque abbia attraversato, e assaporato, gli Anni Ottanta e Novanta da un punto di vista dell’esperienza videoludica, ma anche a chi ne voglia semplicemente capire e cogliere appieno le sfaccettature lasciandosi guidare dalla rievocazione efficace e passionale di un membro della ‘tribù del joystick’ ha vissuto appieno quei decenni tanto ricchi di stimoli, ma anche di contenuto.